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Laicità e Costituzione

Laicità e Costituzione


Sovente nelle discussioni politiche, siano esse dibattiti parlamentari o talk show televisivi o conversazioni di gente comune seduta al bar, ricorre l’affermazione che l’Italia è uno Stato (purtroppo spesso molto poco) laico, e tale considerazione è altresì alla base delle riflessioni dei giuristi, dagli autorevoli studiosi del Diritto Costituzionale ai vari operatori del diritto nei diversi settori della nostra società. Eppure in nessuno dei 139 articoli della Costituzione della Repubblica Italiana, entrata in vigore il 1° gennaio del 1948, compare mai il sostantivo “laicità” o l’aggettivo “laico/laica”.


Tuttavia, il principio della laicità dello Stato è talmente importante che si rende necessario cercare di capire da dove tragga il suo fondamento, tenuto conto che esso rappresenta una vera e propria bandiera in molti ambienti politici, sociali e culturali, tra i quali, particolare menzione merita la Massoneria che si è fatta portatrice del valore della laicità nel corso dei secoli, consapevole che soltanto nella separazione delle cose della Terra da quelle del Cielo e, in particolare, nella distinzione delle leggi del Creatore da quelle delle Creature è garantita la possibilità per tutti gli esseri umani, a cominciare dagli stessi liberi muratori, di professare liberamente le proprie convinzioni e di vivere in base alle stesse. Gli articoli della Costituzione che trattano espressamente di argomenti religiosi ed ecclesiastici sono quattro, e precisamente gli articoli 7, 8, 19 e 20, che per facilità di lettura si riportano di seguito: Articolo 7. – Lo Stato e la Chiesa cattolica sono, ciascuno nel proprio ordine, indipendenti e sovrani. I loro rapporti sono regolati dai Patti Lateranensi. Le modificazioni dei Patti, accettate dalle due parti, non richiedono procedimento di revisione costituzionale. Articolo 8. – Tutte le confessioni religiose sono egualmente libere davanti alla legge. Le confessioni religiose diverse dalla cattolica hanno diritto di organizzarsi secondo i propri statuti, in quanto non contrastino con l’ordinamento giuridico italiano. I loro rapporti con lo Stato sono regolati per legge sulla base di intese con le relative rappresentanze. Articolo 19. – Tutti hanno diritto di professare liberamente la propria fede religiosa in qualsiasi forma, individuale o associata, di farne propaganda e di esercitarne in privato o in pubblico il culto, purché non si tratti di riti contrari al buon costume. Articolo 20. – Il carattere ecclesiastico e il fine di religione o di culto d’una associazione od istituzione non possono essere causa di speciali limitazioni legislative, né di speciali gravami fiscali per la sua costituzione, capacità giuridica e ogni forma di attività. Come ricordato in precedenza, non compare alcun riferimento esplicito alla laicità e, a ben vedere, i valori tutelati dalle succitate norme costituzionali – quali la secolarizzazione, l’indipendenza dello Stato dalla Chiesa, la libertà di coscienza, la libertà e l’eguaglianza di tutte le confessioni religiose, la non discriminazione – concorrono certamente a strutturare il principio di laicità ma non ne rappresentano il fondamento. In effetti tali valori, anche disaggregati, possono tranquillamente coesistere con ordinamenti in cui la laicità non viene assicurata: un esempio evidente è rappresentato dagli Stati Uniti d’America, laddove sono garantite la libertà di coscienza e la coesistenza tra religioni diverse, con la conseguente neutralità dello Stato rispetto al fenomeno religioso, ma ogni azione dei pubblici poteri viene compiuta in nome di Dio (compresa la stampa delle banconote con il motto «In God we trust»). D’altra parte lo stesso articolo 7 della Costituzione, nel fare espresso richiamo ai Patti Lateranensi, aveva posto non pochi problemi agli esegeti della Carta fondamentale della Repubblica: tali Patti, stipulati nel 1929 tra la Santa Sede e il Regno d’Italia già soggetto alla dittatura fascista di Benito Mussolini, sancivano tra l’altro che la religione cattolica era la religione dello Stato italiano e sarebbero stati modificati solo da una successiva revisione del Concordato. La dottrina costituzionalista dovette perciò sforzarsi di trovare una interpretazione coerente con le altre norme sulla libertà e sull’eguaglianza di tutte le confessioni religiose, arrivando così a sostenere che l’inserimento nella Costituzione dei Patti Lateranensi non avesse determinato la promozione a rango costituzionale di tutte le norme in essi contenute, bensì del solo principio pattizio nella disciplina dei rapporti tra Stato italiano e Chiesa di Roma. Tuttavia la giurisprudenza della Corte Costituzionale aveva ritenuto che l’articolo 7 non sancisse soltanto un generico principio pattizio, ma contenesse un preciso riferimento ai protocolli del Laterano, le cui norme, rese esecutive dalla legge n. 810 del 1929, potevano essere dichiarate incostituzionali solo se in contrasto con i principi supremi dell’ordinamento costituzionale dello Stato italiano e non, si badi, con le norme della Costituzione formale (sentenza n. 30 del 1971), imponendo così una distinzione, tutta da precisare, tra le disposizioni costituzionali che esprimono principi supremi dell’ordinamento non derogabili dalle norme concordatarie, e le altre disposizioni costituzionali invece derogabili dai Patti Lateranensi. Tale situazione ha avuto finalmente termine con l’entrata in vigore degli Accordi del 18 febbraio 1984, stipulati a Villa Madama a Roma tra la Repubblica italiana e la Santa Sede, nel corso della Presidenza del Consiglio del socialista Bettino Craxi, i quali nel disporre alcune modifiche al Concordato lateranense hanno sancito la sua abrogazione per le norme in essi non riprodotte (articolo 38). Che la formulazione dell’articolo 7 della Costituzione avrebbe provocato complicate questioni interpretative apparve comunque chiaramente già da subito in Assemblea Costituente, ove molto acceso fu il dibattito su quello che sarebbe divenuto il comma 1 di tale norma, recante la disposizione in forza della quale lo Stato e la Chiesa cattolica sono, ciascuno nel proprio ordine, indipendenti e sovrani. In particolare Piero Calamandrei, insigne giurista ed esponente del Partito d’Azione, affermò che una tale norma non avrebbe dovuto essere inserita nella Costituzione, che è l’atto della sovranità unilaterale del popolo italiano e della Repubblica italiana, ma eventualmente in un trattato internazionale in cui due soggetti, entrambi sovrani, riconoscono reciprocamente l’altrui sovranità. Neppure si poteva obiettare, come faceva invece il segretario comunista Palmiro Togliatti, che tale norma disciplinasse i rapporti tra Stato e Chiesa, i quali sarebbero ordinamenti collocati su piani diversi e quindi tra loro un riconoscimento reciproco di sovranità si sarebbe reso necessario: se veramente i due ordinamenti si fossero trovati situati in diverse dimensioni, non si sarebbero incontrati mai e, non essendoci possibilità di conflitto, non ci sarebbe stato bisogno di alcun riconoscimento reciproco. La realtà, per Calamandrei, era che i due ordinamenti sono della stessa natura temporale, cioè politica e quindi, volendo stabilire che entrambi sono indipendenti e sovrani, quando ognuno di essi detterà proprie norme divergenti per i conflitti che nasceranno, sarà necessario decidere quali di queste norme saranno prevalenti. Il giurista e politico fiorentino si oppose tenacemente anche al secondo comma dell’articolo 7, laddove si prevede che i rapporti tra Stato e Chiesa sono regolati dai Patti Lateranensi, rilevando che una tale costituzionalizzazione degli accordi conclusi dal regime fascista con la Chiesa di Roma nel 1929 avrebbe trasformato un fatto storico in una norma di diritto costituzionale, con conseguenti gravi ripercussioni. Anzitutto le norme così inserite nella Costituzione repubblicana sarebbero risultate modificabili solo con il consenso di un’altra potenza, menomando la sovranità italiana. Inoltre il richiamo espresso ai Patti Lateranensi avrebbe praticato subdolamente nella Carta costituzionale un «innesto confessionale», introducendo disposizioni in palese contrasto con altre norme costituzionali che riguardano l’eguaglianza dei cittadini di fronte alla legge, la libertà di coscienza, la libertà di insegnamento, l’esclusiva statale della funzione giurisdizionale, addirittura l’abolizione dei titoli nobiliari. In sostanza Calamandrei affermò che con i Patti Lateranensi l’Italia era diventata uno stato confessionale con una propria religione ufficiale, “di Stato”, alla quale era attribuita prevalenza giuridica rispetto alle altre, con la conseguenza che la diversità di religione diventava diversità di diritti e i precetti religiosi si trasformavano in leggi dello Stato, divenendo obbligatori anche per quei cittadini che professano religioni diverse o non ne professano alcuna. Egli precisò inoltre che i Patti Lateranensi erano stati stipulati dalla Chiesa cattolica con lo Stato fascista, cioè uno stato autoritario che non difendeva i diritti di libertà, ma questo non poteva e non doveva più valere in uno stato democratico che, all’opposto, considera suo compito essenziale la difesa di quei diritti. Come noto, l’Assemblea Costituente avrebbe invece approvato, con il voto contrario di azionisti, repubblicani, demolaburisti, socialisti di tutte le tendenze e qualche liberale, l’articolo 7 della futura Costituzione nel testo criticato da Calamandrei e tuttora in vigore. A maggior ragione, pertanto, rimane ancora sfuggente la pietra angolare della laicità costituzionale. La Consulta, con la sentenza n. 203 del 1989, si è limitata a statuire che il principio di laicità «emerge» dagli articoli 2, 3, 7, 8, 19 e 20 della Costituzione e rappresenta uno dei principi supremi dell’ordinamento, caratterizzando la forma di Stato disegnata dalla Carta costituzionale. In effetti, per tentare di comprendere pienamente la natura e il significato del principio di laicità che, pur non nominato, pervade il dettato e lo spirito della nostra Costituzione, bisogna ricercarne la radice in quella concezione dei diritti dell’uomo che nel nostro ordinamento costituzionale ha dato origine al “principio personalista”, di cui la laicità è forse proprio l’articolazione più importante. Il principio personalista informa di sé l’intero edificio costituzionale, ma trova espressione compiuta in particolare negli articoli 2 e 3 della Costituzione: Articolo 2. – La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità e richiede l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale. Articolo 3. – Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali. È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese. Dal riconoscimento dei diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo, sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità, discende l’affermazione che la persona umana, nella sua concreta individualità sociale, rappresenta un valore storico e naturale originario, che l’ordinamento deve garantire e rispettare in ogni circostanza. I diritti della persona sono inviolabili e, come tali, non possono essere soppressi o manomessi dall’ordinamento stesso, neppure al limite con il procedimento di revisione costituzionale, né tanto meno sacrificati sull’altare della ragion di Stato, in quanto appartengono all’essenza dei valori supremi sui quali si fonda la Costituzione stessa. I medesimi valori supremi proclamati nella Carta costituzionale devono essi stessi essere valutati con il metro della persona umana e non possono esistere esigenze, anche fondate su valori, su interessi, su calcoli di utilità che consentano di intaccare il valore fondante costituito dai diritti inviolabili della persona. Da tale concezione dell’uomo-persona come fondamento del diritto nasce la laicità costituzionale basata sul principio personalista, mentre gli articoli 7, 8, 19 e 20 “si limitano” a disciplinare i rapporti tra lo Stato repubblicano e la Chiesa cattolica e ad assicurare la libertà di religione e di coscienza. La laicità pertanto si fonda sul riconoscimento che il valore uomo non è bilanciabile con altri valori, in quanto costituisce valore fondante. Per esempio, a differenza di altri ordinamenti, la nostra Costituzione non consente di effettuare bilanciamenti tra l’esigenza di sicurezza della collettività e il diritto alla vita di ciascun singolo cittadino, tanto che la pena di morte è bandita e le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità (articolo 27), in quanto il diritto alla vita e alla dignità essenziale della persona è assolutamente inviolabile e non può essere superato dall’azione dei pubblici poteri. La stessa cosa può dirsi per il ripudio della guerra, sia come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli sia come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali (articolo 11), in quanto la guerra consiste in un’attività che può compiersi solamente attraverso la distruzione di persone umane, cioè di valori storico-naturali di cui l’ordinamento non può disporre. Si ricordi altresì come neppure per legge possono essere resi obbligatori determinati trattamenti sanitari, qualora questi violino i limiti imposti dal rispetto della persona umana (articolo 32). In sostanza la persona rappresenta un bene originario che risulta quindi un valore insormontabile che non può essere annientato. I suoi diritti possono tutt’al più essere compressi in situazioni determinate, e pur sempre nei limiti della legge, ma il suo valore non può essere annullato. Il principio personalista pone delle limitazioni ontologiche all’esercizio del potere politico e impone che i diritti della persona, espressamente riconosciuti come inviolabili, non possano essere piegati ad alcuna “visione del mondo”, non soltanto etica o filosofica o politicoideologica, ma anche nella fattispecie religiosa.

Quasi paradossalmente, l’individuazione del concetto di persona quale architrave di tutto l’impianto costituzionale si deve in particolare a Giuseppe Dossetti, membro democristiano dell’Assemblea Costituente e poi sacerdote cattolico, che redasse un ordine del giorno, presentato il 9 settembre 1946, in cui si proponeva di riconoscere la precedenza sostanziale della persona umana, intesa nella completezza dei suoi valori e dei suoi bisogni non solo materiali ma anche spirituali, rispetto allo Stato, nonché la necessaria socialità di tutte le persone, destinate a completarsi e perfezionarsi a vicenda. Appare evidente l’impostazione di base sostanzialmente cristiana del concetto di persona così delineato e bisogna riconoscere il grande merito dei padri costituenti di aver saputo trasformare questo concetto di derivazione religiosa nel fondamento costituzionale della laicità della Repubblica. D’altra parte il concetto di “persona umana” non era di esclusiva appartenenza dei giuristi e dei politici di matrice cattolica, dato che anche il laico e liberalsocialista Calamandrei dimostra di farne ampio e coerente uso, laddove afferma che, a differenza dei diritti di libertà, che si configurano come classici diritti pubblici dal contenuto negativo, in quanto vi corrisponde l’obbligo per lo Stato di non fare, ovvero di non impedirne l’esercizio, i diritti sociali hanno contenuto positivo, poiché a essi corrisponde l’obbligo per lo Stato di fare qualcosa per il cittadino, cioè di «rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che si frappongono alla libera espansione morale e politica della persona umana»1 . Come si vede, questo concetto costituisce proprio il nucleo essenziale del principio dell’eguaglianza sostanziale che sarà poi inserito nel summenzionato secondo comma dell’articolo 3 della Costituzione, contribuendo a delineare il principio personalista. L’universalismo (certamente nato cristiano ma cresciuto poi nella declinazione illuminista) dei diritti della persona permette anche di affermare che la Repubblica Italiana può garantire la libertà religiosa solo se i suoi cittadini non si chiudano dentro gli orizzonti integralisti delle rispettive comunità religiose, dandosi invece reciproco riconoscimento nella società civile quali cittadini dello Stato che, laico, risulta essere ideologicamente e religiosamente neutrale, sebbene consideri che le religioni, come le diverse culture, possano fornire contributi importanti alla formazione politica dell’opinione e della volontà nella sfera pubblica, contrariamente a una certa interpretazione radicale del multiculturalismo che vorrebbe che le diverse visioni del mondo siano tra loro incommensurabili, ognuna come un universo chiuso al quale è preclusa ogni intesa discorsiva con gli altri. In realtà la Repubblica è laica perché compie la precisa scelta di basare le proprie fondamenta sui diritti universali e inviolabili dell’uomo-persona e chiama i propri cittadini a contribuire su un piano di eguaglianza delle opzioni culturali, ideologiche e religiose al progresso democratico della società italiana, tutelando in egual misura i credenti, i non credenti, i diversamente credenti (e i diversamente non credenti). E d’altra parte la laicità è proprio il presupposto della democrazia, giacché quest’ultima è autonomia, cioè libertà nell’immanenza, mentre la religione è eteronomia, cioè soggezione alla trascendenza: in altri termini chi fa appello alla religione ritiene che le cose terrene siano subordinate a un superiore ordine sacro oggettivo e necessario da rispettare e, se violato, da restaurare; chi invece si appella alla democrazia (e la Costituzione sancisce nel primo articolo che l’Italia è una Repubblica democratica) ritiene che le cose terrene non abbiano un ordine precostituito, ma siano gli esseri umani a doverlo dare loro attraverso le discussioni, il confronto, i voti e le elezioni. Metodi e tempi che possono apparire spesso contorti e farraginosi, ma che sono posti a garanzia della libertà dei cittadini perché, come ricordava il Premier britannico (e massone) Winston Churchill, la democrazia è un pessimo sistema di governo ma purtroppo non ne esistono di migliori.

Bibliografia: F. Finocchiaro, Diritto Ecclesiastico, Zanichelli, Bologna 2015. D. Gallo, Da sudditi a cittadini. Il percorso della democrazia, Gruppo Abele, Torino 2013. A. F. Patergnani, Tra politica e diritto. Piero Calamandrei e il Partito d’Azione, Diodati, Padova 2019.


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